Già in occasione del post sull’enologia sostenibile parlai del dualismo, tra sostenitori e non, sull’uso della solforosa in vinificazione e di come si cerchino vie alternative per azzerarne l’aggiunta, come nel caso dei protocolli Freewine e Purovino. Questo concetto, in realtà, rappresenta solo un aspetto, peraltro determinante, di una vera e propria “lotta” tra fautori dei vini cosidetti “naturali” da quelli cosidetti “industriali”. In realtà queste definizioni non sono propriamente corrette perché potrebbero indurre il consumatore, ad esempio, a definire il vino “industriale” figlio della chimica e della tecnologia, una sorta di catena di montaggio di dubbia qualità. In realtà, si tratta comunque di prodotti della terra che, nel primo caso, sono prodotti senza trattamenti invasivi in vigna e in cantina (produttori biologici e biodinamici) e, nel secondo caso, sono prodotti da aziende con superfici vitate elevate in cui i frutti della ricerca scientifica e tecnologica la fanno da padrone (viticoltura di precisione, lotta integrata, tecnica enologica avanzata). Naturalmente, ciò significa che ci sono vini buoni e cattivi in entrambe le situazioni.
E’ stato oggetto di aspra polemica, nei giorni passati, il commento di Jonathan Nossiter, regista del documentario Mondovino, sul magazine GQ definendo “tossico” un vino non naturale, oltre che sproporzionato nel costo e traditore della propria identità. Naturalmente tali affermazioni sono eccessive e scorrette, soprattutto se prive di fondamento e vanno a minare, come nel caso della tossicità (sostanza velenosa secondo il Devoto-Oli), quanto di buono è stato fatto per uscire in maniera importante dallo scandalo metanolo degli anni 80.
E’ altrettanto vera, però, come Nossiter ha sottolineato in maniera impropria, la tendenza generale a produzioni in cui si tende a privilegiare la tecnologia e, in alcuni casi, l’identità dell’enologo, rispetto all’identità dell’uva e del vitigno in un particolare territorio, ossia vini tecnologicamente perfetti ma difficilmente identificabili se non dall’etichetta.
E’ più giusto dire, a mio avviso, che un vino “industriale” è frutto di una programmazione che ha come obiettivo quello di ottenere un prodotto con determinate caratteristiche costanti, apprezzato dal consumatore e in grandi volumi, andando a reperire, alla faccia della territorialità, materia prima da ampie zone. Insomma, è il caso in cui il vino è visto come strumento di business che non tradisca il consumatore, abbatta i costi e generi un margine elevato.
Naturalmente, è uno stile non da demonizzare del tutto, per carità, che ha i suoi effetti positivi sull’intero mercato vitivinicolo tirando la volata anche ai produtori più piccoli che ne beneficiano in termini di visibilità.
La scelta di produrre vini “naturali”, viceversa, è sicuramente più coraggiosa e dai risultati incerti, sia per la difficoltà di gestire le patologie in vigneto, soprattutto se non inserito in un proprio contesto territoriale e quindi esente da “contaminazioni” esterne, sia per la difficoltà di gestire il processo fermentativo senza interventi che, come sostengono, sono irrispettosi delle prerogative del vitigno e del terroir, oltre che per la difficoltà di commercializzare un prodotto di nicchia.
In questo modo, infatti, si accetta a priori il rischio che il vino possa non piacere, come spesso capita, ma anche che ci siano ottimi prodotti. E’ giusto apprezzare, quindi, l’onestà intellettuale del produttore, ma anche la qualità organolettica del prodotto, senza che un marchio o un logo possa essere fuorviante.
Personalmente, se dovessi scegliere, preferirei bere un vino che parli di territorio, rispettoso dell’ambiente e della salute del consumatore, anche “naturale” purchè privo di difetti oggettivi, anziché bere un brand.
Sebastiano Di Maria
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