venerdì 27 gennaio 2012

VINI NATURALI vs VINI INDUSTRIALI

Già in occasione del post sull’enologia sostenibile parlai del dualismo, tra sostenitori e non, sull’uso della solforosa in vinificazione e di come si cerchino vie alternative per azzerarne l’aggiunta, come nel caso dei protocolli Freewine e Purovino. Questo concetto, in realtà, rappresenta solo un aspetto, peraltro determinante, di una vera e propria “lotta” tra fautori dei vini cosidetti “naturali” da quelli cosidetti “industriali”. In realtà queste definizioni non sono propriamente corrette perché potrebbero indurre il consumatore, ad esempio, a definire il vino “industriale” figlio della chimica e della tecnologia, una sorta di catena di montaggio di dubbia qualità. In realtà, si tratta comunque di prodotti della terra che, nel primo caso, sono prodotti senza trattamenti invasivi in vigna e in cantina (produttori biologici e biodinamici) e, nel secondo caso, sono prodotti da aziende con superfici vitate elevate in cui i frutti della ricerca scientifica e tecnologica la fanno da padrone (viticoltura di precisione, lotta integrata, tecnica enologica avanzata). Naturalmente, ciò significa che ci sono vini buoni e cattivi in entrambe le situazioni.
E’ stato oggetto di aspra polemica, nei giorni passati, il commento di Jonathan Nossiter, regista del documentario Mondovino, sul magazine GQ definendo “tossico” un vino non naturale, oltre che sproporzionato nel costo e traditore della propria identità. Naturalmente tali affermazioni sono eccessive e scorrette, soprattutto se prive di fondamento e vanno a minare, come nel caso della tossicità (sostanza velenosa secondo il Devoto-Oli), quanto di buono è stato fatto per uscire in maniera importante dallo scandalo metanolo degli anni 80.
E’ altrettanto vera, però, come Nossiter ha sottolineato in maniera impropria, la tendenza generale a produzioni in cui si tende a privilegiare la tecnologia e, in alcuni casi, l’identità dell’enologo, rispetto all’identità dell’uva e del vitigno in un particolare territorio, ossia vini tecnologicamente perfetti ma difficilmente identificabili se non dall’etichetta.


E’ più giusto dire, a mio avviso, che un vino “industriale” è frutto di una programmazione che ha come obiettivo quello di ottenere un prodotto con determinate caratteristiche costanti, apprezzato dal consumatore e in grandi volumi, andando a reperire, alla faccia della territorialità, materia prima da ampie zone. Insomma, è il caso in cui il vino è visto come strumento di business che non tradisca il consumatore, abbatta i costi e generi un margine elevato.
Naturalmente, è uno stile non da demonizzare del tutto, per carità, che ha i suoi effetti positivi sull’intero mercato vitivinicolo tirando la volata anche ai produtori più piccoli che ne beneficiano in termini di visibilità.
La scelta di produrre vini “naturali”, viceversa, è sicuramente più coraggiosa e dai risultati incerti, sia per la difficoltà di gestire le patologie in vigneto, soprattutto se non inserito in un proprio contesto territoriale e quindi esente da “contaminazioni” esterne, sia per la difficoltà di gestire il processo fermentativo senza interventi che, come sostengono, sono irrispettosi delle prerogative del vitigno e del terroir, oltre che per la difficoltà di commercializzare un prodotto di nicchia.
In questo modo, infatti, si accetta a priori il rischio che il vino possa non piacere, come spesso capita, ma anche che ci siano ottimi prodotti. E’ giusto apprezzare, quindi, l’onestà intellettuale del produttore, ma anche la qualità organolettica del prodotto, senza che un marchio o un logo possa essere fuorviante.
Personalmente, se dovessi scegliere, preferirei bere un vino che parli di territorio, rispettoso dell’ambiente e della salute del consumatore, anche “naturale” purchè privo di difetti oggettivi, anziché bere un brand.


Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com

mercoledì 25 gennaio 2012

L'ANALISI DEL DNA IN VITICOLTURA

La disciplina utilizzata nello studio della vite con l’obiettivo di individuare, denominare e classificare le innumerovoli varietà, attraverso analisi delle caratteristiche peculiari della pianta, della sua morfologia e delle diverse fasi del suo sviluppo (foglie, apici dei germogli e grappoli) è nota come ampelografia (dal greco àmpelos - vite, tralcio). Una vera e propria rivoluzione nello studio della genealogia della vite si è avuta, invece, con l’analisi del DNA attraverso l’utilizzo dell PCR (Polymerase Chain Reaction), scoperta nel 1995. Tale metodica consente di amplificare, ossia riprodurre in maniera specifica ed esponenziale, una piccola regione del DNA.


Una delle sue innumerevoli applicazioni, quella con Marcatori di Microsatelli, ha consentito di creare un’enorme banca dati di oltre 3.000 varietà, in cui, attraverso il confronto dei rispettivi profili, è possibile riconoscere i singoli vitigni e anche i loro cloni. In questo modo si è potuto risalire alle origini della viticoltura, scoprendone i progenitori e i vari legami di “parentela”. Nel caso del Sangiovese, ad esempio, si è scoperto che uno dei progenitori è il Calabrese di Montenuovo, varietà praticamente scomparsa dal patrimonio ampelografico nazionale. Potete immaginare lo stupore e lo stato di diffidenza generale nell’ammetere che, uno dei vitigni principe dell’enologia Italiana, che ha trovato in Toscana il suo territorio di elezione, fosse in realtà di origine calabrese o campana. Questa metodica è la stessa che ha permesso di distinguere la Tintilia dal Bovale Grande, cui era sinonimo nell’Albo Nazionale dei Vitigni, dandone un’identità territoriale nel Molise.



Sebastiano Di Maria

giovedì 19 gennaio 2012

VITICOLTURA CONVENZIONALE: TUTTO DA BUTTARE?

Proteggere e difendere l’ambiente in cui viviamo è sempre più un elemento caratterizzante la nostra società. Anche il settore vitivinicolo non si sottrae da tale logica, forte anche degli sviluppi che la ricerca mette in campo, come la viticoltura di precisione, per far fronte, tra l’altro, all’adeguamento del quadro normativo previsto per il 2014 circa la difesa da parassiti animali e vegetali. Ed ecco quindi il concetto di sostenibilità, intesa non solo come tutela della salute del consumatore e dell’ambiente, ma anche sociale ed economica. Gli obiettivi imprescindibili sono: minimizzare l’uso della chimica e il suo impatto ambientale, migliorare nel contempo la cura del suolo e della sua fertilità attraverso la tutela della biodiversità e dell’ecosistema vigneto, ossia conservazione delle risorse, ed economicità delle operazioni. Uno sviluppo organico di tali principi è in essere, già da qualche anno, con il progetto Magis, implementato da molte aziende vitivinicole sull’intero territorio nazionale. Ci sono paesi che definiscono la viticoltura sostenibile come “economicamente valida, socialmente responsabile e sensibile all’ambiente”. In diversi paesi sono stati implementati veri e propri protocolli di viticoltura sostenibile, con tanto di ispezioni e certificazioni.


Un discorso a parte meriterebbero poi la viticoltura biologica e quella biodinamica. La prima prevede l’utilizzo di protocolli che escludano l’utilizzo della chimica di sintesi, ma consentono l’utilizzo di rame e zolfo come anticrittogamici, la seconda, quella più estremista, con approcci più di tipo spirituale che scientifico, che vede il suolo come parte integrante di una simbiosi tra il pianeta, l’aria e il cosmo. Niente chimica, solo poltiglia bordolese, zolfo e preparati biodinamici (letame, corno-letame e corno-silice).
In mezzo abbiamo la viticoltura convenzionale, la più diffusa al mondo, che prevede l’utilizzo di fertilizzanti e agrofarmaci di sintesi, con regolamentazioni stringenti per quest’ultimi, irrigazione a goccia, diserbo sottofila o, in alternativa, lavorazione meccanica, ed inerbimento delle interfila. L’uso degli antiparassitari avviene, generalmente, attraverso sistemi di lotta integrata, frutto di un continuo monitoraggio della situazione del vigneto.
Tale sistema di conduzione è ormai sotto continuo attacco da una parte della stampa specializzata, parte del mondo scientifico e soprattutto dai consumatori, perché preoccupati dalle questioni relative all’ecosistema viticolo e del rispetto dell’ambiente, nonché della salute.
A tal proposito, vi sono anche studi che tentano di ridurre l’impatto ambientale della viticoltura convenzionale, come quello della Nuova Zelanda, conosciuto come “convenzionale verde” o viticoltura sensibile all’ambiente che prevede, ad esempio, la semina di specie i cui fiori attraggono insetti predatori e tecniche di compostaggio in loco che accelerano l’umificazione dei residui vegetali riducendo il rischio di botrite.
D’altro canto, per quanto si possa applicare con rigore il metodo bio nella propria azienda, i prodotti non possono essere tali se vengono contaminati dalla deriva dei trattamenti fatti dalle aziende circostanti. Quindi il vero bio deve essere assolutamente un fatto territoriale. Non a caso si parla di vini prodotti da agricoltura biologica e non di vini biologici.
Altro aspetto da considerare è l’eccessivo uso della chimica di sintesi in vigneto. Da una parte ci sono le multinazionali, i cui prodotti prima di essere messi in commercio passano attraverso un rigido protocollo di valutazione dei rischi, certificazione di un ente terzo e relativi effetti su uomo ed ambiente, con regolamentazioni sia in ambito Comunitario che dei singoli stati membri. Dall’altra parte abbiamo l’utilizzo del rame o della poltiglia bordolese che, utilizzati in dosi massicce, portano ad accumulo di rame che, come metallo pesante, causa fenomeni di tossicità oltre che problemi fermentativi.
C’è poi chi sostiene, su dati sperimentali anche se parziali (Università di Bologna, Prof. Adamo Rombolà), che un vigneto coltivato in biodinamico rispetto ad una parte dello stesso coltivato a biologico abbia diversi aspetti positivi: maggiore sviluppo delle radici, maggiore presenza di lieviti sulle bucce, maggiore carica microbica del suolo, peso delle bacche inferiore a parità di peso e quindi un miglior rapporto polpa/buccia.
Un altro studio ventennale condotto nella Loira ha invece dimostrato che la trinciatura dei sarmenti di potatura è preferibile, per apportare sostanza organica, al compost da funghi o al letame bovino.
Come è noto che un certo grado di stress idrico migliora il potenziale qualitativo del vino, ma questo non vale per lo stress idrico grave, come la carenza di azoto che è comune nei vigneti “biologici”, abbassa notoriamente il livello qualitativo di molti vini, con tutti i problemi che porta a livello fermentativo.
Insomma, credo che la promozione di una viticoltura tradizionale condotta in maniera equilibrata ed ecosostenibile sia il compromesso giusto. Senza perdere d’occhio le innovazioni tecnologiche, come successe alla fine dell’ottocento con la fillossera e le prime patologie che decretarono la nascita della viticoltura moderna, e come la necessità attuale di rispetto dell’ambiente e di tutela della salute del consumatore, perseguibili attraverso strumenti come la zonazione viticola, la viticoltura di precisione, grazie al progresso scientifico, per uno sviluppo di una viticoltura sostenibile o lo studio di vitigni e portinnesti tolleranti le malattie e più efficienti contro gli stress abiotici. Ben vengano anche le forme di viticoltura alternative, purchè fondate su dati concreti privi di enfatizzazioni e realmente inserite in un contesto territoriale.
Sebastiano Di Maria

giovedì 12 gennaio 2012

RICEVO E VOLENTIERI PUBBLICO

In merito al post sull'utilizzo dell'ozono (O3) per l'ottenimento di vini senza solfiti aggiunti, oltre che una particolare attenzione alla sostenibilità ambientale, ricevo e pubblico volentieri i primi risultati sulla sperimentazione condotta su uve Montepulciano. Rammento che la raccolta, il trattamento delle uve e la successiva vinificazione, sono state condotte presso la Tenuta dell'Ammiraglia, sita in località La Capitana (Magliano in Toscana - Grosseto), dall'Azienda Marchesi de' Frescobaldi.

Sebastiano Di Maria



PUROVINO™ MONTEPULCIANO 2010: rosso naturale
Il Montepulciano 2010 prodotto con il metodo Purovino è
un vino rosso senza solfiti aggiunti, ma con carattere
Un rosso strutturato, ricco e sano: questo è il Montepulciano 2010 prodotto con il metodo Purovino. Realizzato seguendo l’innovativo brevetto comasco, che prevede l’uso dell’ozono al posto dell’anidride solforosa comunemente utilizzata – per ottenere un prodotto senza solfiti aggiunti, naturalmente buono e sano – il vino è stato affinato in botti di legno per sette mesi. L’uso delle barrique in legno al posto dei fusti d’acciaio sottolinea e amplifica il desiderio di naturalità e tradizione, nonostante il protocollo produttivo all’avanguardia.
Cosa rende questo vino speciale e diverso dagli altri presenti sul mercato? L’impiego dell’ozono e l’assenza di residui chimici: il prodotto finito risulta così più salutare, con un incremento degli antiossidanti tanto preziosi per l’organismo, e molto gradevole al palato. Inoltre, il metodo Purovino garantisce un notevole risparmio idrico ed energetico, grazie al riutilizzo dell’acqua ozonata dopo filtrazione e ai bassi consumi del generatore di ozono, con vantaggi sia per le aziende sia per l’ambiente.
All’esame visivo il vino si presenta di colore rosso rubino, intenso e limpido; all’olfatto è pulito, con sentori di frutti di bosco e marasca e,roteando il calice, sprigiona un prezioso bouquet di aromi speziati ed eterei, fre i quali emergono il cacao e il tabacco. Al gusto è intenso e molto persistente, con una buona personalità e una nervatura importante, sinonimo di longevità.

Abbinamenti consigliati? Sicuramente il Montepulciano 2010 Purovino è molto piacevole da accompagnare con cibi dal gusto deciso, come secondi piatti di carne e formaggi stagionati.

Per informazioni:
PC Engineering Srl
02 36714160 - www.purovino.it - info@purovino.it

Ufficio Stampa Chili PR 02 76281152 press@purovino.it


martedì 10 gennaio 2012

LUNGA VITA ALLA VITE

Qual'è il segreto della longevità della vite? E’ stato svelato dai friulani Marco Simonit e Pierpaolo Sirch che, dopo oltre 20 anni di sperimentazione, hanno definito un metodo di potatura “soffice” in grado di preservare lo stato di salute dei vigneti, allungandone il ciclo di vita, fino a raddoppiarlo. Si tratta di un’innovativa filosofia di gestione della vigna, che si ispira al recupero dei modelli tradizionali tramandati dai vecchi potatori del mondo contadino per applicarli alle esigenze della viticoltura moderna.
La passione per il loro lavoro e la cura che dedicano alla vigna è raccontata in un video da poco realizzato, che descrive, attraverso immagini suggestive dal Nord al Sud del paese, l’essenza della loro filosofia, attraverso la testimonianza di esperti del mondo vitivinicolo, di esponenti del mondo scientifico e di produttori.

Il metodo Simonit&Sirch si basa su un approccio rispettoso dei ritmi della natura e mirato sulla singola pianta, con potature solo sul legno giovane al fine di salvaguardare la salute della vite.
Nei loro viaggi per l’Europa, Marco Simonit e Pierpaolo Sirch, hanno cercato di capire come in alcune zone europee venivano coltivati senza grosse difficoltà ceppi di 50-60 anni. L’intuizione è avvenuta osservando degli alberelli, dove i viticoltori per allevare piante così vecchie eseguono tagli su legno di massimo due anni. Cercarono di adattare, in primo luogo, questa tecnica sulle spalliere. L’obiettivo era il rispetto del flusso linfatico e tagli sul legno giovane, massimo di due anni. Un movimento della linfa più lineare, senza movimenti tortuosi,  porta ad un germogliamento uniforme con potatura di rinnovo facilitata dalla presenza di tralci in posizione corretta, oltre che a una resistenza maggiore della pianta alla siccità.
La loro teoria fu accolta con freddezza dagli esperti del settore ma, col tempo, si è dimostrata rispettosa della vite mantenendo il legno sano.



Una tecnica “dolce”, quindi, che garantisce uno sviluppo sostenibile ed equilibrato della pianta. Il primo obiettivo è quello di allungare la vita media della pianta prevenendo le più diffuse malattie del legno, attraverso la riscoperta di vecchi metodi di cura delle vigne. In secondo luogo, la riduzione dei costi di gestione del vigneto con un abbattimento delle ore di potatura dal 30 al 50%. Infine, la rivalorizzazione e il recupero di un antico mestiere quasi dimenticato, quello del potatore, che riacquista quindi nuova dignità e apre ai giovani interessanti prospettive nel settore della green economy.
Il progetto dei “Preparatori d’uva” di restituire longevità alla vite ha compiuto un ulteriore passo avanti con la nascita della prima "Scuola Italiana Permanente di Potatura della Vite", giunta al suo terzo anno di corsi. Unica nel suo genere non solo in Italia, ma a livello internazionale, è un centro di formazione permanente con corsi organizzati in partnership con importanti centri di ricerca e Università.

giovedì 5 gennaio 2012

QUANDO LA DEGUSTAZIONE DIVENTA POESIA: NELL'INTIMITA' DI UN ELOQUIO NON URLATO




Oggi il granato è brillante ma dichiarato. Ne intuisco l’evoluzione, eppure quel fondo compatto, di un suo ardore persino rubino, ispira fiducia. Sì, i profumi sono quelli di cui avevo bisogno, quelli nei quali perdermi senza troppo pensare: “old fashioned”, austeri, signorili, “classici”, compunti, con il soffio etereo in prima linea e l’intrico di fogliame, bacca selvatica, humus, eucalipto e ciliegia macerata di corredo, con quest’ultima a regalare un gentile timbro surmaturo al frutto senza per questo sfociare nell’affaticamento aromatico. Chiede aria quel naso, lo senti, per adagiarsi più disteso sulle note di viola e terriccio. Ed è proprio in quel momento che mi piega ai suoi voleri, perché resistergli oramai mi appare come una forzatura dello spirito.
In bocca possiede rigore aulico (“monastico”, mi direbbe il grande Fabio Rizzari) e dignità conclamata, giocata sui “canoni canonici” della tradizione brunellesca. Fresco, scattante, finanche sottile nella trama tannica, assume un portamento flemmatico e asciutto, di una eleganza introversa, mantenendo una coerenza ed un garbo espositivo da non lasciare indifferenti. Non un’ombra di forzatura nei paraggi, solo il conforto di una mano pura e di un calore buono. Nel finale non si risparmia un certo irrigidimento nei tratti e nella diffusione, ma se gli allunghi non sono perentori stai pur certo della bella compagnia, perché nell’intimità di un eloquio non urlato potrai cogliervi la voce consolatrice della terra rispettata, trasposta in un bicchiere verace e senza fronzoli, fiero ed orgoglioso, capace di restituire per intero il senso tutto della misura, della naturalezza espressiva e dell’appartenenza.

da L'AcquaBuona: Brunello di Montalcino DOCG Riserva 2001 – Le Chiuse


Balanço - More (1999)

NB Per una lettura migliore della scheda si consiglia questo brano come sottofondo

martedì 3 gennaio 2012

DA SO2 A O3: ENOLOGIA SOSTENIBILE?

Uno degli argomenti più dibattuti quando si parla di vino, tanto da creare due veri e propri fronti, favorevoli e contrari, è l’aggiunta in vinificazione dell’SO2 o anidride solforosa. L'uso dello zolfo come antisettico, sia in fase di fermentazione sia per la conservazione del vino, è una pratica molto antica. E’ superfluo ricordare che l’aggiunta della stessa porta indubbi vantaggi. Grazie alla sua attività antimicrobica e antiossidante, nel processo di vinificazione, toglie l’enologo da pericolosi imbarazzi: azione selettiva svolta nei confronti dei lieviti, inibendo gli apiculati, poco resistenti alla stessa e poco graditi, in favore degli ellittici contenuti nei normali starter o come nel regolare una fermentazione spontanea (lieviti autoctoni), estrazione di sostanze coloranti, illimpidimento dei mosti e attività antiossidante, sono solo alcune delle sue prerogative.
Anche in vitivinicultura biologica l’uso dei solfiti è consentito, anche se con limitazioni. Di fronte a questa validità d’impiego, pur riconoscendo la tossicità di questi composti sul consumatore, la normativa vigente ne fissa i limiti  e obbliga la dicitura in etichetta “contiene solfiti”. Oltre a mettere in guardia il consumatore sensibile al composto, ne indica anche gli effetti di tossicità cronica  in seguito ad assunzioni minime giornaliere.

I limiti di legge sono 160 mg/l per i vini rossi, 210 mg/l per i vini bianchi e rosati, purchè il residuo zuccherino non superi i 5 g/l, altrimenti i limiti salgono. In generale, il contenuto si solforosa è più alto nei vini bianchi e in particolar modo nei passiti, per evitare rifermentazioni visto l’elevato residuo zuccherino.
La tendenza attuale è quella di contenerne l’utilizzo, partendo da uve sane e limitandosi ad aggiunte solo in fase di svinatura e/o imbottigliamento in modo da diminuire quella combinata nel vino favorendo la forma libera.
Per inciso, non avremo mai un vino esente da solfiti, in quanto i lieviti ne producono naturalmente delle piccole quantità.
Ci sono anche produttori, come quelli che aderiscono al progetto Freewine, il cui obiettivo è zero solfiti aggiunti nel vino. Questa strategia si fonda su due principi: l’uso di tecnologie specifiche e utilizzo di protocolli di vinificazione innovativi, attraverso una buona serie di pratiche enologiche che consentano di controllare, in particolar modo, l’ossigeno in tutte le fasi della lavorazione, croce e delizia dei processi di vinificazione. Molte tecnologie sono già note, come abbondante uso di gas inerti, cura massima dell’igiene, lieviti e batteri selezionati, nutrizione degli stessi ottimizzata, grande attenzione al contatto indesiderato con l’ossigeno, chiusure appositamente studiate.

Un ulteriore passo in avanti nella produzione di vino senza uso di solfiti è stata la sperimentazione condotta dall’Università della Tuscia, in sinergia con la società Pc Engineering e la californiana Purefresh Inc. La chiave sta nell'uso dell'ozono (O3) per il trattamento delle uve: nasce così Purovino. In realtà si tratta di un protocollo di trattamento, già sviluppato alcuni anni fa e da impiegare sull’uva da tavola, con un duplice effetto: forte attività antisettica (forte ossidante) e aumento dei composti polifenolici come stilbeni (trans-resveratrolo) utili per salute umana, oltre a flavanoli ed acidi idrossicinnamici, particolarmente importanti da un punto di vista enologico. Se poi l’ozono, trasformandosi rapidamente in ossigeno, non lascia nessun residuo, ecco che l’applicazione in campo enologico ha un motivo più che valido.

La sperimentazione è stata eseguita in sette cantine dislocate tra Umbria e Toscana su uve Cabernet Sauvignon e Montepulciano. L’uva raccolta a mano e posta in cassetta, dopo refrigerazione, è sottoposta ad un atmosfera satura di ozono mediante un generatore, il cui costo è di circa 30.000 € e con un consumo di 0,6 kW ora alla massima potenza, quindi come un normale elettrodomestico. Tutti gli impianti di vinificazione sono lavati con acqua ozonata che, dopo l’utilizzo, viene filtrata e reimpiegata con un notevole risparmio idrico (30%) e, di conseguenza, l’inutilizzo di sostanze chimiche per la sanificazione. La restante parte del processo di vinificazione avviene secondo i canoni standard, senza l’aggiunta di solfiti, naturalmente.
I risultati ottenuti hanno mostrato che c’è stato un aumento della concentrazione di alcune frazioni fenoliche, in particolar modo di acido gallico, catechina ed epicatechina ed una significativa diminuzione di lieviti, batteri acetici e funghi presenti sulla superficie degli acini, oltre ad eliminare i residui di sostanze chimiche persistenti (fitofarmaci), generalmente impiegate sulle uve nei trattamenti in campo. Anche l’analisi del vino ha fornito dati interessanti, in primis una bassa concentrazione di solfiti rispetto alla vinificazione tradizionale, come era lecito attendersi, frutto della sola attività dei lieviti, oltre che un inatteso aumento di polifenoli e antociani. Probabilmente l’attività dell’ozono ha portatato anche ad una maggiore estraibilità di questi composti mediante la sua azione sull’uva.
Il procollo Purovino può essere considerato, quindi, a tutti gli effetti, alternativo per la produzioni di vini privi di solfiti aggiunti oltre che di ausilio alla sostenibilità di cantina, intesa come risparmio idrico e assenza di residui chimici.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com

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