di Nicolino Civitella
Quest’anno l’associazione culturale   l’Ecomuseo Itinerari Frentani, presieduta e animata dal prof. Marcello  Pastorini, ha messo in atto, nelle giornate del 18 e 19 marzo, un programma di  partecipazione ai riti di S. Giuseppe che si sono svolti a Larino e nei  paesi  limitrofi di Guardialfiera, Montrorio nei Frentani, S. Croce  di Magliano, Casacalenda  e S. Martino in Pensilis.
L’Associazione, con i suoi cantori della memoria, ha  visitato cappelle, tavolate e falò realizzati in tali località per la festività  di S. Giuseppe, proponendo canti sacri nonché letture di brani letterari di  Francesco Jovine e poesie in vernacolo di Giovanni Cerri e Raffaele Capriglione,  due poeti locali del  secolo scorso.
Scrive Francesco Jovine nel suo  Viaggio  nel Molise: “ Per S. Giuseppe, con le prime viole, il paese (Guardialfiera)  inaugura la serie delle agapi fraterne. C’è in questa usanza qualche cosa di  arcaico o addirittura primordiale, ma di un significato umano così profondo che  mi pare degno di essere notato…”;  e Cerri  nella  poesia  I tavele de San Geseppe: Se dente Marze vie ‘n  quistu pajese,/ ze fa na feste che ‘n z’è viste maje;/ tu vive , miegne e puo’  te ne revaje/ a nu pajese tie senza pagà/.
Il poeta Capriglione, dal canto suo,  nella  poesia dedicata ai falò di S. Giuseppe, ossia ai marauasce, dice: quanne  è restrette a folle p’ogne luoche,/ siente e lluccà i guagliune e una voce:/  ppicciate u marauasce, fuoche , fuoche/.
In tutti i paesi c’è la tradizione di cappelle e  tavolate, tranne che a S. Croce. Infatti qui c’è esclusivamente quella dei    marauasce,  cantati da  Capriglione nell’omonima poesia.
A Larino, quattro le cappelle allestite quest’anno, tutte  nel centro storico, e, come al solito, in piccoli ambienti direttamente aperti  alla strada. Nulla di eccezionale: un semplice altarino realizzato alla bell’e  meglio, addobbato con tovaglie di lino bianco, lumini, in qualche caso fiori, e  con un quadro che riproduce la figura del santo a troneggiare sulla sua sommità;  in un angolo, cibi devozionali da offrire in dono ai visitatori. 
I Cantori della memoria vi hanno portato  le  loro esibizioni, tra le diciannove e trenta e le venti e trenta del giorno  18,  proprio nell’ora di massima presenza di visitatori. Ovunque  accolti  con piena soddisfazione. Nel momento dell’esibizione,  tutti fermi ad ascoltare,  poi  la distribuzione dei  cibi devozionali che riprendeva, ed ognuno se ne usciva fuori stringendo tra le  mani una scarpella (morbido bastoncino di pasta fritta) oppure un piatto  con maccheroni alla mollica (“ i maccarune de San Geseppe”, vivanda d’obbligo,  questa, su tutte le tavole dell’indomani),  o con la pezzente, una  profumatissima zuppa di legumi ( ceci, cicerchie, fagioli, fave e lenticchie,  conditi con olio, cipolla,  aglio e alloro), mentre altri  visitatori si accalcavano per entrare.
Nella piacevole serata, appena increspata da qualche  residuo alito della stagione ormai conclusa, il cuore del centro storico era  animato di vita: in piazza Duomo, nell’attigua piazza Roma e lungo la classica  via Cluenzio che si diparte da quest’ultima infilandosi tra le case con le  pieghe di una coda felina, era tutto un via vai di persone che facevano il giro  delle cappelle.
Il movimento si è prolungato fino ad una certa ora, poi,  quando i visitatori erano ormai rincasati e le vie divenute già tutte deserte,  le donne che avevano contribuito alla realizzazione della cappella, di solito  legate tra loro da relazioni di vicinato o di amicizia, dopo aver rassettato, in  omaggio alla tradizione della veglia si sono intrattenute a sgranare poste di  rosario fino alla vittoria del sonno.
Un tempo, quando le cappelle erano assai più numerose, il  flusso dei visitatori era molto più intenso e il cibo che veniva ad essi offerto  in dono, aveva generalmente non solo il carattere di simbolo devozionale ma  anche quello più materiale di  supplemento straordinario, almeno  per quel giorno, al magro pasto giornaliero. Un lusso, insomma. 
Ed era il dono di chi possedeva a chi non possedeva e  l’atto rappresentava un’occasione per preservare e rinsaldare, in uno spirito di  sacralità e di soddisfacimento di un bisogno primario, i legami che univano in  un tutt’uno i membri della comunità.
A quel tempo la veglia nelle cappelle era utilizzata per  la preparazione dei cibi della tavolata di S. Giuseppe. La famiglia che  allestiva la cappella, infatti, il giorno successivo, ossia quello della  ricorrenza festiva, faceva la tavolata. Ora non più. Quest’anno, a Larino, della  quattro famiglie che hanno allestito la cappella, solo una ha mantenuto in vita  anche il rito della tavolata.
La pratica di questi riti si va estinguendo e quel  che  rimane lo si deve ad una residua, ma tenace volontà di non  spezzare il legami col passato.
La tavolata prevede tredici convitati e tredici portate.  Il tredici richiama  il numero dei partecipanti all’ultima cena.  Tutti esterni alla famiglia ospite, i convitati, e tra essi in primo piano: una  donna anziana, un uomo altrettanto anziano e un bambino a simboleggiare la sacra  famiglia. 
Lo spirito col quale l’Ecomuseo ha promosso la propria  iniziativa  è quello di valorizzare tali manifestazioni   per rafforzarne la vitalità e quindi favorirne la conservazione.  Lodevole! perché mantenere in vita queste tracce del passato è opera meritoria.  Lo è, però,  nella misura in cui non ci si abbandoni a tentazioni  di natura nostalgica  ed io sono certo che L’Ecomuseo ne è  immune.
In tale ottica, infatti, la preservazione del legame con  il passato non solo aiuta a cogliere in maniera più pertinente le condizioni di  vita dei tempi passati nella loro dimensione materiale e antropologico  culturale,  ma aiuta anche a misurare le distanze che ci separano  da quei tempi e quindi, per raffronto, ad una comprensione più penetrante del  tempo presente.
Per esempio le Cappelle di S. Giuseppe   possono suggerirci il valore della solidarietà verso gli altri come  pratica individuale o di gruppo, valore che oggi  andrebbe  recuperato e sostenuto in un contesto connotato strutturalmente da una  separazione e isolamento degli individui che spinge ciascuno ad atteggiamenti di  egoismo sociale;  ma oggi questo tipo di solidarietà, a differenza  di quanto accedeva nel passato, non basta a oliare il sistema sociale, infatti  il sistema sociale di oggi  ha bisogno  di nuovi  valori che possiamo individuare in una solidarietà che si fa progetto politico,  nella trasparenza nelle relazioni, nella legalità,  nella giustizia  sociale, nella formazione della libera opinione e così via.
Nel Molise le condizioni oggettive non sono  purtroppo favorevoli al prosperare di tali valori, e per questo il lavoro da  fare qui per dischiudere prospettive di un futuro accettabile, è immane.   L’attività dell’Ecomuseo si muove nella giusta direzione, ed esempi del  genere  andrebbero incoraggiati e decuplicati, decuplicati e  decuplicati.  In mancanza, il processo di decadenza   del nostro sistema regione porterà inevitabilmente all’abolizione della  sua entità istituzionale. 




 


