Giovedì 30 gennaio, presso l’Auditorium dell’Istituto Tecnico “San Pardo” di Larino, la Prof.ssa Giovanna Civitella ha tenuto a battesimo, con una lezione sulla storia e la diffusione dell’olivicoltura e dell’olio nelle diverse civiltà fino a nostri giorni, l’inizio del secondo percorso formativo della “Scuola del gusto”. Davanti ad una folta e attenta platea di corsisti, composta di studenti, produttori, curiosi e/o appassionati, ma anche da professionisti, la docente ha cercato di mettere in risalto quello che è stato, per millenni, il ruolo dell’olio e dell’olivo, tra miti e leggende, tra sacro e profano. L’olivo selvatico o olivastro, il progenitore dell’attuale Olea europea, c’è sempre stato nell’ultimo mezzo milione di anni, a intrecciarsi con la presenza dell’uomo, ma, la sua domesticazione, l’ha portato a fermasi nel luogo d’elezione, il bacino del mediterraneo, con le sue coste calde e asciutte, con i suoi climi miti e assolati. La domesticazione, così come per la vite, si pensa possa essere avvenuta non lontano dalla mezza luna fertile, la stessa che ha visto per prima la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, quella fascia fertile tra i fiumi Tigri ed Eufrate che si allunga fino al bacino del Mediterraneo.
La Prof.ssa Civitella durante la lezione |
Con i greci l’olio assume un’importanza fondamentale nell’economia. Gli ateniesi ne fanno, insieme al vino, il centro della loro attività agricola, ma anche della loro cultura e della loro civiltà. E se il vino per i classici esalta la mente e si esprime nel simposio, l’olio cura il corpo e lo esalta nelle gare atletiche. L’olio unge i muscoli dei corridori e dei lottatori, d’olivo è la corona che adorna il capo dei vincitori e vasi d’olio sono il premio per la vittoria. Anche se l’olio era considerato un genere di lusso, tra le classi agiate ateniesi, se ne faceva un uso giornaliero notevole. È stato calcolato che un cittadino che frequentava il ginnasio consumava in un anno 30 litri di olio per l’igiene e la cura del corpo, 20 litri per l’alimentazione, tre litri come lubrificante e per l’illuminazione, mezzo litro come farmaco e un paio di litri per i riti sacri, come la purificazione e l’unzione dei corpi.
Tra l’VIII e il V secolo a.C., la coltivazione dell’olivo e l’uso dell’olio si diffondono, dalle colonie costiere siciliane della Magna Grecia, nell’area centrale della penisola italica, specialmente tra gli Etruschi. Per gli Etruschi l’olio resta un genere di estrema rarità, costoso, uno status symbol. E poiché ogni ricchezza e identità etrusca finiva nelle tombe, anche l’olio aveva un’importanza fondamentale nei riti dell’inumazione ed è frequentissimo trovare preziosi contenitori da importazione nelle tombe degli uomini più importanti. È a questo punto che i Romani apprendono dagli Etruschi l’arte di fare il vino e l’olio. Sotto il regno di Tarquinio Prisco, Roma crescerà circondata da terre, dove si coltiva il grano, si cura la vigna, si raccolgono le olive. E su grano, vino e olio si fonderà la sua ricchezza e la sua forza. Furono proprio i Romani a esaltare l’uso alimentare dell’olio che fino a questo punto era sempre apparso secondario. E per quest’utilizzazione l’olio doveva essere buono, attraverso l’applicazione di tecniche e principi che ancora oggi sono di strettissima attualità. La più antica è il Liber de agricultura o De re rustica di Marco Porcio Catone, che nel suo volume diceva testualmente “appena raccolte, bisogna subito estrar l’olio dalle olive, per evitare che si sciupi”. E proseguiva: “Pensa alle intemperie grandi che ogni anno avvengono e sogliono far cadere le olive. Se fai presto la raccolta, e i recipienti sono pronti, nessun danno da esse, mentre l’olio sarà più verde e migliore. Se rimangon troppo a terra o su un tavolato, le olive cominciano a putrefare e l’olio avrà cattivo odore”.
Tre secoli più tardi, Lucio Giunio Moderato Columella, nella sua Arte dell’agricoltura scriveva “tra tutte le piante l’olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra tutte il primo posto”, ponendo l’accento sul fatto che l’oliveto costava poco e rendeva bene, concetto molto radicato tra i romani. Lo stesso autore, poi, spiegava che “quando le olive cominciano a cambiare colore e alcune sono già nere, ma la maggior parte ancora verdi, si dovranno cogliere a mano in una giornata serena, distenderle su cannicci o su stuoie e vagliarle e pulirle. Appena si sono mondate con diligenza, si portino subito al torchio”. Di un secolo posteriore a Catone è il letterato Mario Terenzio Varrone che, nel suo De lingua latina chiarisce l’origine della parola “olea” (oliva) dal Greco elaia e con sicurezza giudica l’olio di Venafro il migliore del mondo: “Al contrario in Italia cosa v’ha di utile che non solo non nasca, ma non venga anche bene? Quale olio (si potrebbe paragonare) a quello di Venafro?”, giudizio condiviso anche da altri scrittori e poeti dell’epoca.
Queste sono state solo alcune delle situazioni storiche che hanno legato l’uomo alla pianta dell’olivo e all’olio, simbolo di abbondanza, di benessere, di pace, di continuità nella rivelazione ebraico-cristiana, l’unico punto d’incontro delle religioni monoteiste del Mediterraneo. L’olivo e l’olio, come nei secoli passati, anche oggi devono essere strumenti d’unione e di crescita, soprattutto in Molise, dove le testimonianze storiche sono a portata di mano, Venafro e Portocannone su tutti (monumenti viventi), oltre alla sua straordinaria e ricca biodiversità.
Scuola del gusto