giovedì 29 marzo 2012

VINITALY: UN'OCCASIONE DI CRESCITA COLLETTIVA

Finalmente, dopo qualche anno di rinunce per motivi vari, ho avuto l’occasione di partecipare alla più importante rassegna enologica del nostro paese, il Vinitaly, giunto alla 46^ edizione, vetrina prestigiosa per mettere in luce le nostre produzioni vitivinicole, dai terroir più blasonati a quelli emergenti, dai grandi marchi a quelli di nicchia, dai vitigni principe ai sorprendenti autoctoni, per finire con i vini biologici e biodinamici. Insomma, quattro giorni sotto la lente d’ingrandimento di buyers, operatori di settore e semplici appassionati provenienti da tutto il mondo. Ma andiamo per gradi, partendo dalle novità della manifestazione e finendo per parlare, in maniera diffusa, della realtà molisana.


Questa edizione si è aperta all’insegna dell’ottimismo, seppur sotto la scure dell’incremento della pressione fiscale, in quanto il 2011 sia stato l’anno record per l’export nel nostro paese, con ben 24 milioni di ettolitri per un valore di 4,4 miliardi di euro, vale a dire: una bottiglia su quattro nel mondo è italiana. Alla luce di questa tendenza e della sua evoluzione futura, possibile figlia di uno dei provvedimenti più attesi e controversi dell’ultima OCM vino, nell’agenda politica dell’appuntamento veronese, è stata posta in primo piano la tematica relativa alla liberalizzazione dei diritti d’impianto. A tal proposito, il Commissario europeo all’agricoltura, il rumeno Dacian Ciolos, a margine della conferenza stampa organizzata dal Cogeca (rappresentanza delle cooperative agricole europee) ha assunto una posizione più morbida a tal riguardo, dopo aver confermato, nel 2007, la volontà di liberalizzare gli impianti di nuovi vigneti. Dopo la crescita esponenziale del fronte anti-liberalizzazione, rappresentato da ben 14 paesi, tra cui Italia e Francia, ha esordito dicendo che “è pronto a discuterne in maniera pragmatica cercando di adeguare i diritti al mercato, soprattutto alla luce della tendenza all’export per il vino”.
Il Ministro Catania, invece, oltre a definire la liberalizzazione sbagliata e a cui si opporrà in maniera decisa, ha rimarcato la posizione dei viticoltori italiani come simbolo per tutto l’agroalimentare precisando anche, alla luce di una contrazione dei consumi interni, che bisogna fare ancora di più dal punto di vista promozionale soprattutto nei mercati emergenti, dove siamo in ritardo rispetto ai competitor. La diminuzione nei consumi interni di vino è frutto, secondo il Ministro, di una campagna di demonizzazione eccessiva e, per tal motivo, va svincolato dal consumo di alcool in generale.
Una delle novità del salone internazionale del vino e dei distillati è stata l’esposizione di produzioni enologiche sia biologiche che biodinamiche, uno spazio tutto nuovo all’isegna di ViViT (vigne, viganioli, terroir). Si tratta di prodotti che stanno riscuotendo un interesse sempre maggiore nel consumatore per via di metodi produttivi a basso impatto ambientale e dalle ideologie produttive, parlo soprattutto per i biodinamici, spesso demonizzate dalla critica. Mi sono avvicinato con curiosità all’area, ma la ressa e la fila per prendere il bicchiere per la degustazione mi hanno fatto desistere.
Altro tema caldo su cui molti produttori hanno fatto leva è l’ecosostenibilità, ossia produrre a basso impatto ambientale attraverso scelte energetiche “pulite”. Particolarmente provocatoria, da questo punto di vista, è stata l’iniziativa di Michele Manelli, patron dell’azienda Salcheto di Montepulciano, che ha voluto dimostrare come anche in una fiera è possibile abbattere il consumo elettrico utilizzando pannelli solari e facendo pedalare, ad ogni degustatore dei suoi vini, una sorta di bici per produrre energia per lavare i bicchieri e raffreddare il vino.


Passiamo ora alla realtà molisana, un piccolo angolo nel padiglione 7b, dedicato alle produzioni di questa piccola regione nel panorama vitivinicolo nazionale, con appena 5900 ettari, con le sue 4 DOC e 2 IGT, e la presenza dell’autoctono Tintilia come collante tra tradizione e innovazione. L’assessore all’agricoltura della regione, Angiolina Fusco Perrella, intervenendo alla conferenza stampa di presentazione ha ribadito che “la regione Molise ha voluto partecipare attivamente e valorizzare il comparto vitivinicolo con una selezione di 12 aziende locali di eccellenza. Un progetto mirato che prevede ulteriori iniziative da realizzare subito dopo il Vinitaly. Vogliamo, infatti, esaltare ed esportare la qualità". Appena arrivato allo stand e dopo aver avuto modo di chiacchierare con amici sull’andamento della manifestazione e sulle difficoltà di fare mercato per una realtà dai numeri piccoli, soprattutto sull’atavico e campanilistico modo di fare mercato, privo di sinergie e strategie comuni, quanto mai necessarie per microrealtà produttive, mi sono accorto che i conti non tornavano. L’assessore ha parlato di 12 aziende selezionate, ma con tutta la buona volontà ne ho contate solo 9 presenti nello stand. Perché? L’assenza più pesante è, senza nulla togliere agli altri, guarda caso, quella dell’azienda Di Majo Norante, situata nell’adiacente padiglione 7 a qualche centinaio di metri di distanza. La cosa lascia l’amaro in bocca, soprattutto alla luce dei riconoscimenti straordinari che l’azienda bassomolisana ha ricevuto nell’ultimo Vinitaly, annoverata di diritto nelle 100 migliori aziende del bel paese, sotto la lente d’ingrandimento del mercato americano, con il suo Aglianico in purezza, Contado di Molise, inserito da "OperaWine" nella lista dei cento vini di prestigio. La presenza della stessa nell’area dedicata al Molise sarebbe stata fondamentale per dare una spinta all’export regionale, vista la capacità di calamitare consensi. Ma evidentemente, come dimostrato anche da un mal celato disappunto di alcuni miei intelocutori, la presenza in una regione difficilmente individuabile sulla cartina enogeografica e non, e c’è poco da stupirsi in quanto realtà tra addetti ai lavori, è poco infruttuoso rispetto a promuovere un brand. Altra defezione è quella dell’azienda Valerio di Monteroduni, in provinci di Isernia, l’unica che possa fregiarsi della DOC Pentro, da radici antichissime. Entrambe le realtà hanno come consulente Riccardo Cotarella, enologo di fama internazionale e firma di numerosi vini prestigiosi nel panorama viticolo internazionale. Sarà un caso?
Naturalmente, non bisogna dimenticare quanto di buona la regione possa offrire al di fuori di queste realtà. Mi riferisco in particolare al premio di Cangrande della Scala assegnato ai fratelli Enrico e Pasquale Di Giulio, depositari del marchio "Borgo di Colloredo" e consegnato alla presenza del Ministro Mario Catania, fino alla guida femminile di diverse aziende, vero e proprio motore dell’enologia, non solo regionale, ma dell’intero paese.


Concludo citando quello che l’assessore Perrella ha ribadito in maniera determinata: “Il Governo regionale ha tra gli obiettivi il rilancio della viticoltura e, a tal fine, intende moltiplicare le iniziative orientate a valorizzare i punti di forza del nostro Molise. Riteniamo, infatti, che il settore vitivinicolo sia una risorsa importantissima per il tessuto economico e produttivo regionale e che, facendo sistema con le aziende, si possa favorire la crescita dell'economia di tutta la regione”. Naturalmente, come si può non essere d’accordo con tale affermazione? Si tratta di un punto di partenza fondamentale, in cui vanno affrontati gli aspetti più deboli della situazione, ossia i numeri limitati, in termini di bottiglie prodotte, per affrontare mercati importanti, figli anche del poco peso delle realtà cooperative, frutto di gestioni disastrose e poco lungimiranti, oltre che di una strategia comune, un modo di fare impresa condivisibile, priva di campanili, che sappia valorizzare al meglio le peculiarità di un territorio che non ha nulla da invidiare ad altre realtà produttive.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com

mercoledì 28 marzo 2012

I RITI DI SAN GIUSEPPE NEL "LARINESE"

di Nicolino Civitella

Quest’anno l’associazione culturale l’Ecomuseo Itinerari Frentani, presieduta e animata dal prof. Marcello Pastorini, ha messo in atto, nelle giornate del 18 e 19 marzo, un programma di partecipazione ai riti di S. Giuseppe che si sono svolti a Larino e nei paesi limitrofi di Guardialfiera, Montrorio nei Frentani, S. Croce di Magliano, Casacalenda e S. Martino in Pensilis.
L’Associazione, con i suoi cantori della memoria, ha visitato cappelle, tavolate e falò realizzati in tali località per la festività di S. Giuseppe, proponendo canti sacri nonché letture di brani letterari di Francesco Jovine e poesie in vernacolo di Giovanni Cerri e Raffaele Capriglione, due poeti locali del secolo scorso.
Scrive Francesco Jovine nel suo Viaggio nel Molise: “ Per S. Giuseppe, con le prime viole, il paese (Guardialfiera) inaugura la serie delle agapi fraterne. C’è in questa usanza qualche cosa di arcaico o addirittura primordiale, ma di un significato umano così profondo che mi pare degno di essere notato…”; e Cerri nella poesia I tavele de San Geseppe: Se dente Marze vie ‘n quistu pajese,/ ze fa na feste che ‘n z’è viste maje;/ tu vive , miegne e puo’ te ne revaje/ a nu pajese tie senza pagà/.
Il poeta Capriglione, dal canto suo, nella poesia dedicata ai falò di S. Giuseppe, ossia ai marauasce, dice: quanne è restrette a folle p’ogne luoche,/ siente e lluccà i guagliune e una voce:/ ppicciate u marauasce, fuoche , fuoche/.
In tutti i paesi c’è la tradizione di cappelle e tavolate, tranne che a S. Croce. Infatti qui c’è esclusivamente quella dei marauasce, cantati da Capriglione nell’omonima poesia.
A Larino, quattro le cappelle allestite quest’anno, tutte nel centro storico, e, come al solito, in piccoli ambienti direttamente aperti alla strada. Nulla di eccezionale: un semplice altarino realizzato alla bell’e meglio, addobbato con tovaglie di lino bianco, lumini, in qualche caso fiori, e con un quadro che riproduce la figura del santo a troneggiare sulla sua sommità; in un angolo, cibi devozionali da offrire in dono ai visitatori.
I Cantori della memoria vi hanno portato le loro esibizioni, tra le diciannove e trenta e le venti e trenta del giorno 18, proprio nell’ora di massima presenza di visitatori. Ovunque accolti con piena soddisfazione. Nel momento dell’esibizione, tutti fermi ad ascoltare, poi la distribuzione dei cibi devozionali che riprendeva, ed ognuno se ne usciva fuori stringendo tra le mani una scarpella (morbido bastoncino di pasta fritta) oppure un piatto con maccheroni alla mollica (“ i maccarune de San Geseppe”, vivanda d’obbligo, questa, su tutte le tavole dell’indomani), o con la pezzente, una profumatissima zuppa di legumi ( ceci, cicerchie, fagioli, fave e lenticchie, conditi con olio, cipolla, aglio e alloro), mentre altri visitatori si accalcavano per entrare.

Nella piacevole serata, appena increspata da qualche residuo alito della stagione ormai conclusa, il cuore del centro storico era animato di vita: in piazza Duomo, nell’attigua piazza Roma e lungo la classica via Cluenzio che si diparte da quest’ultima infilandosi tra le case con le pieghe di una coda felina, era tutto un via vai di persone che facevano il giro delle cappelle.
Il movimento si è prolungato fino ad una certa ora, poi, quando i visitatori erano ormai rincasati e le vie divenute già tutte deserte, le donne che avevano contribuito alla realizzazione della cappella, di solito legate tra loro da relazioni di vicinato o di amicizia, dopo aver rassettato, in omaggio alla tradizione della veglia si sono intrattenute a sgranare poste di rosario fino alla vittoria del sonno.
Un tempo, quando le cappelle erano assai più numerose, il flusso dei visitatori era molto più intenso e il cibo che veniva ad essi offerto in dono, aveva generalmente non solo il carattere di simbolo devozionale ma anche quello più materiale di supplemento straordinario, almeno per quel giorno, al magro pasto giornaliero. Un lusso, insomma.
Ed era il dono di chi possedeva a chi non possedeva e l’atto rappresentava un’occasione per preservare e rinsaldare, in uno spirito di sacralità e di soddisfacimento di un bisogno primario, i legami che univano in un tutt’uno i membri della comunità.
A quel tempo la veglia nelle cappelle era utilizzata per la preparazione dei cibi della tavolata di S. Giuseppe. La famiglia che allestiva la cappella, infatti, il giorno successivo, ossia quello della ricorrenza festiva, faceva la tavolata. Ora non più. Quest’anno, a Larino, della quattro famiglie che hanno allestito la cappella, solo una ha mantenuto in vita anche il rito della tavolata.


La pratica di questi riti si va estinguendo e quel che rimane lo si deve ad una residua, ma tenace volontà di non spezzare il legami col passato.
La tavolata prevede tredici convitati e tredici portate. Il tredici richiama il numero dei partecipanti all’ultima cena. Tutti esterni alla famiglia ospite, i convitati, e tra essi in primo piano: una donna anziana, un uomo altrettanto anziano e un bambino a simboleggiare la sacra famiglia.
Lo spirito col quale l’Ecomuseo ha promosso la propria iniziativa è quello di valorizzare tali manifestazioni per rafforzarne la vitalità e quindi favorirne la conservazione. Lodevole! perché mantenere in vita queste tracce del passato è opera meritoria. Lo è, però, nella misura in cui non ci si abbandoni a tentazioni di natura nostalgica ed io sono certo che L’Ecomuseo ne è immune.
In tale ottica, infatti, la preservazione del legame con il passato non solo aiuta a cogliere in maniera più pertinente le condizioni di vita dei tempi passati nella loro dimensione materiale e antropologico culturale, ma aiuta anche a misurare le distanze che ci separano da quei tempi e quindi, per raffronto, ad una comprensione più penetrante del tempo presente.
Per esempio le Cappelle di S. Giuseppe possono suggerirci il valore della solidarietà verso gli altri come pratica individuale o di gruppo, valore che oggi andrebbe recuperato e sostenuto in un contesto connotato strutturalmente da una separazione e isolamento degli individui che spinge ciascuno ad atteggiamenti di egoismo sociale; ma oggi questo tipo di solidarietà, a differenza di quanto accedeva nel passato, non basta a oliare il sistema sociale, infatti il sistema sociale di oggi ha bisogno di nuovi valori che possiamo individuare in una solidarietà che si fa progetto politico, nella trasparenza nelle relazioni, nella legalità, nella giustizia sociale, nella formazione della libera opinione e così via.
Nel Molise le condizioni oggettive non sono purtroppo favorevoli al prosperare di tali valori, e per questo il lavoro da fare qui per dischiudere prospettive di un futuro accettabile, è immane. L’attività dell’Ecomuseo si muove nella giusta direzione, ed esempi del genere andrebbero incoraggiati e decuplicati, decuplicati e decuplicati. In mancanza, il processo di decadenza del nostro sistema regione porterà inevitabilmente all’abolizione della sua entità istituzionale.


sabato 24 marzo 2012

QUALI SCELTE POLITICHE PER IL VINO ITALIANO?

Siamo alla vigilia del più importante evento enologico nazionale, vetrina di prestigio per il principe dell’agroalimentare italiano, e tutti, a diverso titolo, si lanciano in previsioni, realtà e prospettive della vitivinicoltura italiana, ricca di mille sfaccettature, fucina d’eccellenze, pregna di storia e tradizioni. Tra queste voci, quella senza dubbio più autorevole, quella da cui dipendono le scelte future, quella competente da cui tutti si attendono un segnale forte che indirizzi l’intero comparto verso un ulteriore rafforzamento portando alla ribalta, ove necessario, il made in Italy, è quella del Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Mario Catania.


Non sono mancati i suoi interventi in questa vigilia veronese, a partire dalla realtà produttiva e dalla sua gestione alla luce della nuova OCM, che confermerà, come sembra, quella attualmente in vigore, dai successi enologici e dalle strategie future, in ambito di marketing e comunicazione, da adottare per confermare questo trend positivo.
In particolare, vorrei riportare alcuni passaggi dell’intervista rilasciata a Tre Bicchieri, il quotidiano del Gambero Rosso, che ha come filo conduttore l’abolizione dei diritti d’impianto, di cui ho abbondantemente parlato quì. Il Ministro, alla domanda sull’utilità di mantenere in vita questo meccanismo di tipo protezionistico, risponde affermando che “l’Europa non è l’Australia e la filiera vinicola è un sistema produttivo delicato che non può essere abbandonato rischiando, senza l’ombrello dei diritti d’impianto, lo sconvolgimento di equilibri secolari”. Inoltre, “il vino non è una commodity replicabile ovunque, indifferentemente. I vini di Bordeaux si possono fare solo lì e le nostre doc nascono dalla storia e dalla sapienza dei territori”. Naturalmente, come già avevo ribadito in questo post, c’è quasi l’unanimità del mondo produttivo europeo sulla revisione di tale aspetto che penalizzerebbe, oltremodo, alcune realtà produttive. “L’obiettivo originale era quello di abbattere i caposaldi di una politica agricola europea protezionistica e corporativa attraverso l’abolizione degli aiuti alla produzione, come distillazione e vendemmie verdi, e l’estirpazione di vigneti“, ribadisce Catania nell’intervista e di cui, personalmente, condivido in pieno l’obiettivo, quello di dare un taglio ai rami secchi che, stranamente, ancora fagocitavano aiuti pubblici. La scelta di destinare questi aiuti alla promozione si è rivelata strategica, soprattutto per il nostro paese, come conferma il ministro Catania: “il ministro Paolo De Castro, portò a casa il plafond più alto e il ministro francese dell'agricoltura si complimentò con me, che accompagnavo De Castro, dicendomi che avevamo negoziato molto meglio dei francesi. Ciò ha permesso di fare della viticoltura italiana il gioiello produttivo che conosciamo, la voce più importante del made in Italy agroalimentare, la prima della bilancia commerciale con 4,4 miliardi di euro di esportazioni”.



L’obiettivo principale, secondo Catania, per affrontare le “battaglie” future è quello di crescere in qualità e dimensione delle aziende, troppo frammentate e spesso con strategie di mercato aziendalistiche, aggiungo io, che piuttosto contribuiscono a creare confusioni nel consumatore, vista la complessità del panorama enologico nazionale, anziché proporsi come aggregazioni territoriali, con delle vere e proprie reti d'impresa, che facciano da traino anche alla altre denominazioni, spesso all’ombra, come dimostrato dall’indagine Ismea e di cui ho avuto modo di parlarne in maniera approfondita in quest'altro post.
Il ministro Catania, a tal proposito, infatti, pone l’accento sull’abbondanza delle denominazioni nel nostro paese, in quanto “le 500 tra Doc e Dogc, forse, sono troppe anche se il gran numero di vitigni e di vini è una grande ricchezza del Paese. Oggi e in prospettiva perchè credo che alla lunga il mondo si stancherà di bere solo Cabernet Sauvignon e Merlot”. Questo è quello che ci auguriamo noi italiani, nel rispetto di un sano campanilismo, naturalmente. Vedremo come intenderà perseguire questi obiettivi nel suo intervento al Vinitaly.


Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com

mercoledì 21 marzo 2012

DENOMINAZIONI E MERCATO: UN CONNUBIO SEMPRE VINCENTE?

Le produzioni italiane certificate, che siano DOP, IGP o STG, stanno registrando un trend di crescita positivo, oltre il 20% su base annua, mai manifestato in passato a cui fa seguito, con i relativi distinguo, un incremento positivo dei volumi e dei fatturati. Quest’analisi non è frutto di una semplice constatazione del fermento che pervade tutto il territorio nazionale, dalla carta stampata specializzata e non per finire alla rete con il suo pullulare di siti e blog a tema, ma piuttosto da un’analisi attenta e accurata che l’ISMEA, l’Istituto che si occupa dell’analisi del mercato agricolo, redige ogni fine anno sulle produzioni agroalimentari italiane.
Secondo tale rapporto, il nostro paese è il leader mondiale del comparto per numero di produzioni certificate con 239 prodotti iscritti nel registro Ue, di cui 149 DOP, 88 IGP e 2 STG (dati al 31.12.2011). Le aziende certificate sono circa 85 mila, con un volume di prodotto pari a 1,3 milioni di tonnellate e un fatturato di 6 miliardi di euro.

Fonte: Rapporto ISMEA 2011 sulle produzioni agroalimentari italiane DOP, IGP e STG

Analizzando i valori di mercato del comparto Dop e Igp, si parte da una produzione che sul mercato si traduce in un giro d’affari di 6 miliardi di euro che diventano circa 10 al consumo. E’ innegabile che si tratti di numeri significativi, anche se, a dispetto dei tanti nuovi riconoscimenti, il dato che fa riflettere è la forte concentrazione su poche denominazioni, con una percentuale di peso sul totale che sfiora l’83%.
Se si fa un confronto per tipologia merceologica, invece, tra il peso in termini di numero di denominazioni e del fatturato all’azienda, si nota in alcuni comparti un’asimmetria tra incidenza delle denominazioni e del valore di mercato: negli ortofrutticoli, infatti, il numero complessivo di denominazioni pesa sul totale per un 40%, mentre il fatturato complessivo ha un’incidenza di circa il 5%; per gli oli extravergini di oliva il numero complessivo di denominazioni incide sul totale per il 17%, ma il fatturato complessivo ha un peso dell’1%. Discorso inverso, invece, per formaggi e prodotti a base di carne.


Fonte: Rapporto ISMEA 2011 sulle produzioni agroalimentari italiane DOP, IGP e STG

Mauro Rosati, segretario generale della Fondazione Qualività, sostiene che “il quadro complessivo della qualità italiana porta un po’ di ottimismo in quanto, i dati produttivi e le 20 nuove denominazioni italiane registrate nel 2011, che coinvolgono oltre 7000 potenziali nuove aziende nella certificazione di prodotto, sono un segnale di vitalità per l’agricoltura ma in generale per tutta l’economia”. Questo significa che le imprese guardano alla qualità come unica ancora di salvezza per far fronte alla globalizzazione e alla crescente richiesta di qualità da parte del consumatore. Inoltre, sempre secondo Rosati, “occorre innovare e stravolgere certi paradigmi come “il piccolo è bello” e “l’originalità improvvisata” e puntare sull’organizzazione aziendale, gli standard di certificazione ed il marketing”.
Su questo aspetto è intervenuto anche il Prof. Alberto Mattiacci dell’Università La Sapienza, responsabile scientifico del rapporto, che invita a “non lanciarsi in affermazioni trionfalistiche, in quanto il comparto deve parte rilevante della propria crescita al solo allargamento della base produttiva certificata e non a significativi incrementi di performance delle varie denominazioni, eccezion fatta per uno sparutissimo numero di esse”, come l’aceto balsamico di Modena, entrato di prepotenza nella top-ten per fatturato all’origine solo nel 2010, con un peso del 4% sul totale dopo che nel 2009 la sua incidenza non arrivava nemmeno all’1%. Inoltre, sempre secondo Mattiacci, “ancora troppo timido appare il miglioramento delle capacità di mercato dei protagonisti del comparto: politiche di marca a sostegno dei prezzi, competenze e capacità di relazione coi partner commerciali, per citarne solo due, sono ancora vette irraggiungibili per molte (troppe) delle denominazioni italiane”, ponendo l’accento sulla necessità, alla luce del rischio e delle opportunità che lo scenario economico presenta, di porli come obiettivi prioritari nell’agenda politica e aziendale. Insomma, si tratta di un mercato in continua evoluzione e i marchi DOP e IGP devono fare da volano anche ai relativi territori di riferimento. Purtroppo, il dato che emerge da questo studio è che la comunicazione e il marketing non vengono percepiti come risorse strategiche ed, inoltre, nella descrizione che i produttori danno del proprio prodotto ci si indirizza sulla tradizione e sulla provenienza geografica, ossia su una qualità certificata intrinseca, allontanandosi da un brand forte e generando lotte intestine all’interno della stessa denominazione. Ci sono molti consorzi, infatti, che dichiarano di non provvedere alla gestione di questa attività né attraverso un ufficio interno né affidandola a consulenti.


In definitiva, occorre superare queste barriere e congetture cercando di adoperarsi con strategie comuni e condivisibili, fondate su un’agricoltura dinamica, ecosostenibile e territoriale, per non perdere quote di mercato extra-UE con burocrazie farraginose e relativo sperpero di denaro, potendo già contare, a tal proposito, sulle risorse necessarie.

Sebastiano Di Maria


sabato 17 marzo 2012

RICEVO E VOLENTIERI PUBBLICO

LA NATURA NEL PIATTO
ALLA SCOPERTA DELLE PIANTE ALIMENTARI SPONTANEE
Continuano gli appuntamenti della "Carovana popolare", iniziativa ideata e organizzata dall'Ecomuseo Itinerari Frentani. Sabato 24 marzo, alle ore 18.30, a Larino, presso la sala della parrocchia della Cattedrale, sarà possibile assistere ad una lezione del Prof. Gildo Giannotti sulle piante alimentari spontanee. Il Prof. Gildo Giannotti, ex insegnante dell'Istituto Tecnico Agrario di Larino, esperto di botanica, è autore del libro "Piante spontanee commestibili". Il libro contiene anche un'appendice di ricette per preparare squisiti piatti. Le piante alimentari spontanee, il cui uso una volta rappresentava una necessità, oggi sono utilizzate per preparare piatti richiesti dai buoni intenditori alla ricerca di sapori e profumi antichi e "popolari".


I partecipanti all'iniziativa sono invitati domenica 25 marzo 2012, alle ore 10.00, ad una visita guidata, a cura dell'Ecomuseo Itinerari Frentani e dei Cantori della Memoria, presso il Parco archeologico di Larino (Anfiteatro, Terme romane...). Nel giardino di Villa Zappone, dopo la visita guidata, i partecipanti potranno seguire una lezione pratica del Prof. Gildo Giannotti sul riconoscimento di alcune specie di piante alimentari spontanee.
Alla fine, si potrà, previa iscrizione entro giovedì 22 marzo 2012, partecipare ad una degustazione di piatti preparati con alcune piante alimentari spontanee.
Per info e iscrizioni: www.itinerarifrentani.ititinerarifrentani@hotmail.it e 3406550584


Marcello Pastorini ( Ecomuseo Itinerari Frentani)


venerdì 16 marzo 2012

LIBERA VIGNA IN LIBERO MERCATO?

La Politica Agricola Comune (PAC) e’ un insieme di norme che, a livello comunitario, mirano a regolare il comparto agricolo. Uno degli strumenti di applicazione di queste norme si chiama Organizzazione Comune di Mercato (OCM), dal 2008 unificata per tutti i settori agricoli. Da più di vent’anni tutte le riforme della PAC si ispirano al principio della liberalizzazione ai fini della competitività, anche se, produrre indiscriminatamente in condizioni di eccedenza, in genere, non risolve le crisi di mercato. A tal proposito, uno dei temi più dibattuti in ambito internazionale, riguardo alla riforma del settore vitivinicolo, è la liberalizzazione dei diritti di impianto in viticoltura. Questi hanno sempre rappresentato, nella regolamentazione comunitaria di settore, lo strumento essenziale di controllo e di gestione delle produzioni, contribuendo a mantenere gli equilibri tra domanda ed offerta. Tali paure si sono concretizzate, infatti, con la previsione di abbandono dell’utilizzo dei diritti di impianto codificato dall’ultima OCM (Ex Regolamento CE n. 479/2008 del 29 aprile 2008, traslato nel Reg. CE n. 1234/07). Al Titolo V di detto regolamento (Potenziale di Produzione, Capitolo II) è, infatti, previsto che il sistema di diritti di impianto, attualmente in vigore, scompaia il 31 dicembre 2015 (salvo facoltà degli Stati membri di prolungarlo al loro interno fino a tutto il 2018), con la giustificazione, da parte della Commissione proponente, di aumentare la competitività dei produttori europei in modo da riconquistare fette di mercato in mano ai competitor del nuovo mondo enologico (Australia, Nuova Zelanda, Cile ecc.), preservando la centralità della tradizione vitivinicola europea. Deve anche essere sottolineato che, in tutti questi anni di applicazione del divieto di impianto, quasi tutte le zone viticole di maggior successo, anche nel nostro paese, hanno potuto crescere nel loro potenziale produttivo, come dimostra la seguente tabella riferita ad alcune DOCG e DOC italiane (dati Federdoc).

 
Fonte: Federdoc - Funzione dei "diritti di impianto" in viticoltura


Inoltre, l’esistenza del regime dei diritti di impianto non ha mai costituito un freno all’accesso a nuovi vigneti e relative produzioni: infatti, il mercato dei diritti è libero e le riserve regionali sono a disposizione delle produzioni richieste dal mercato.
L’effetto di questo provvedimento ha suscitato, e lo farà nel prossimo futuro, un vespaio di polemiche circa i benefici o, per meglio dire, i danni che tale adeguamento porterà all’intera vitivinicoltura europea. Per tale motivo, molti stati si sono adoperati esprimendo una posizione comune circa l’inadeguatezza di tale norma, esprimendo un forte dissenso verso l’applicazione della stessa. Il fronte del no conta oggi 14 Stati membri, rappresentanti 205 voti, favorevoli alla revisione di questo punto dell'Ocm vino. Ad oggi, mancano 40 voti per avere la maggioranza qualificata che costringerebbe la Commissione Ue a rivedere i suoi piani nel quadro della riforma Pac. A tal proposito, l’Arev, Assemblea delle regioni viticole europee (75 regioni di 18 Paesi), ha presentato uno studio realizzato dal Moisa, l'unità di ricerca di Montpellier, sugli impatti socio-economici e territoriali, analizzando i casi di Australia, Argentina, Spagna, Francia, e Portogallo, con l’obiettivo di coinvolgere altri paesi come il Belgio (12 voti), la Bulgaria (10 voti) e la Polonia (27 voti). In effetti, ci sono stati già i primi risultati in quanto la Bulgaria, dopo tale sollecitazione, dice no alla liberalizzazione di diritti d’impianto. Salgono così a 15 i Paesi europei che chiedono al Commissario Ue all'Agricoltura, Dacian Ciolos (che parteciperà al Vinitaly), il mantenimento del regime dei diritti.
Secondo tale studio, “l’abolizione dei diritti di impianto si tradurrebbe nel calo dei prezzi legato alla crescita dell'offerta”, che porterebbe, come per l’Australia, a squilibri di mercato derivanti dalla sovrapproduzione con conseguenti estirpazioni, crolli dei valori fondiari e fallimenti. Inoltre, “in Europa, negli ultimi dieci anni, il numero di aziende si è ridotto e la superficie unitaria è cresciuta, e non sarà l'aumento della superficie media, derivante dall'abolizione dei diritti, a far crescere i redditi”, dato confutato anche nel nostro paese, come già dimostrato dalla tabella precedente.



Ma il dato preoccupante, sempre secondo l’Arev, è che “la liberalizzazione degli impianti avrà un impatto diretto sulla delocalizzazione dei vigneti” con la scomparsa di pesaggi che hanno fatto della vitivinicoltura la loro economia con il realtivo spostamento verso le zone di pianura. Di conseguenza, si “colpirà il sistema enoturistico oltre che la competitività dei vigneti di montagna, con le conseguenze ambientali che ne derivano”. La conclusione dell'Arev, già in parte paventata dai sostenitori del no, è che si avrà la tendenza ad un’industrializzazione del settore vinicolo con aziende, pressate dalla crisi, che hanno sempre più necessità di investimenti veloci e di produrre volumi da smerciare rapidamente.
La liberalizzazione dei diritti di impianto è una partita tutt’altro che chiusa, non solo perchè il quorum per ottenere la revisione è vicino (mancano 25 voti), ma perchè tra gli oppositori figurano Italia, Francia e Spagna, ossia la vitivinicoltura europea. I diritti di impianto, oltre a consentire la regolazione dell'offerta, rappresentano anche uno strumento di gestione ragionata delle zone di produzione a beneficio del patrimonio viticolo collettivo e del binomio vigneto/regione; la perdita di tale strumento favorirà la delocalizzazione dei vigneti verso zone facilmente meccanizzabili con il depauperamento di territori. In alcune aree si assiste già ad un pre-posizionamento di operatori che dispongono di capitali in vista dell’espansione della propria azienda a svantaggio dei piccoli produttori, che sono fermamente contrari a tale provvedimento.



Personalmente, ritengo più opportuno insistere, come già in parte è stato fatto nell’ultima OCM, sullo spostamento delle risorse finanziarie della distillazione e delle vendemmie verdi alla promozione. Basta con lo sperpero di denaro pubblico, che serve a preservare realtà ormai prossime al collasso, per incapacità manageriali o per strani giochi di potere, con il solo intento di "mungere" finanziamenti pubblici. Le vacche, oltre a non essere più grasse, sono diventate anche parsimoniose.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com


lunedì 12 marzo 2012

ITAG INFORMA: GARA DI POTATURA DELL'OLIVO A VASO POLICONICO


Anche quest’anno, nella cornice dell’azienda olivicola e vitivinicola De Lisio sita in agro di Guglionesi, si è svolta la manifestazione patrocinata dall’Arsiam, ossia dal relativo ufficio di olivicoltura di Larino, e dal comune di Guglionesi, la gara regionale di potatura dell’olivo a vaso policonico, valevole per la selezione alla gara nazionale “Forbici d’Oro” che quest’anno si svolgerà ad Ascoli Piceno il 23 e 24 Marzo. L’obiettivo di tale manifestazione, più della competizione vera e propria, è quello della promozione e dello sviluppo dell’intero comparto olivicolo.
I concorrenti partecipanti sono stati 41 mentre la giuria preposta era formata dai docenti universitari Davide Neri (Facoltà di Agraria - Università di Ancona) e Sebastiano Delfine (Facoltà di Agraria - Università del Molise) che hanno illustrato, prima del via, i principi salienti di una corretta potatura. Ogni concorrente ha avuto a disposizione 20 minuti per lavorare su due piante, assegnate preventivamente tramite un codice poi sorteggiato dai concorrenti. Al termine del concorso, le aziende di settore Pellenc e Coima hanno presentato le attrezzature di ultima generazione che sono da ausilio a tale pratica.
A vincere l’ottava edizione del Campionato è stato uno studente dell’Istituto Agrario di Larino, il frentano Armando Angelozzi, classe 1997. Al secondo posto si è classificato Giovanni D’Ambra, classe 1992, ex studente dello stesso Istituto, che nel 2009 aveva conquistato il secondo posto al campionato regionale e il decimo a quello nazionale svoltosi a Montopoli di Sabina (provincia di Rieti).
I primi quattro in classifica prenderanno parte di diritto al Campionato nazionale che si terrà ad Ascoli Piceno. Trattandosi della decima edizione, verrà svolto, a margine della stessa, la “Coppa dei Campioni della potatura”: i primi tre classificati di ognuna delle dieci edizioni del premio “Forbici d’Oro” si daranno battaglia per l’ambito premio. Quattro i molisani che hanno diritto a partecipare a questo campionato: i campioni d’Italia Pardo Di Tommaso (edizione 2008) e Michele Ricci (2009) e i terzi classificati Giovanni Vizzarri (2010) e Giuseppe Campitelli (2003), tutti larinesi doc.

Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com

domenica 11 marzo 2012

RICEVO E VOLENTIERI PUBBLICO


PUROVINO™ PROTAGONISTA AL VINITALY 2012
I vini prodotti con l’innovativo metodo Purovino saranno presentati in anteprima a Verona dal 25 al 28 marzo
Al via da domenica 25 a mercoledì 28 marzo il Salone Internazionale del Vino e dei Distillati: lo spazio espositivo di Veronafiere ospiterà la 46° edizione di Vinitaly, la più grande manifestazione mondiale dedicata al settore vinicolo.
Purovino (www.purovino.it), innovativo metodo di vinificazione che consente di produrre vini senza solfiti, sarà presente al Vinitaly con le proprie etichette e i prodotti delle cantine aderenti. Nomi rinomati quali Marchesi de’ Frescobaldi, Marchesi Antinori, Azienda Agricola Barberani e Azienda Vinicola Falesco, per un’adesione che sta dando ottimi frutti: in essere da meno di un anno, il progetto Purovino si sta sviluppando in maniera esponenziale, sia a livello nazionale sia internazionale, con migliaia di bottiglie prodotte. La filosofia del protocollo produttivo Purovino è realizzare vini senza solfiti aggiunti, più salutari e naturali, con un’elevata concentrazione di antiossidanti benefici per la salute e con un notevole risparmio idrico ed energetico, valori aggiunti tanto per le cantine quanto per i consumatori.
Vini Purovino disponibili in fiera:
·         Cabernet Sauvignon 2009, vinificato presso la Tenuta dell’Ammiraglia, Marchesi de’ Frescobaldi
·         Montepulciano 2010, vinificato presso la Tenuta dell’Ammiraglia, Marchesi de’ Frescobaldi
·         Montepulciano 2010 barricato, vinificato presso la Tenuta dell’Ammiraglia, Marchesi de’ Frescobaldi
·         Montepulciano 2011, vinificato presso l’Azienda Agricola Olivieri Mara
·         Petit Verdot 2011, vinificato presso Azienda Vinicola Falesco 
·         Sauvignon Blanc 2011, vinificato presso la Tenuta Castello della Sala, Marchesi Antinori
·         Sauvignon Blanc barricato 2011, vinificato presso la Tenuta Castello della Sala, Marchesi Antinori
·         Ansonica 2011, vinificato presso la Tenuta Le Mortelle, Marchesi Antinori
·         Blend Sauvignon Blanc/Ansonica 2011, Marchesi Antinori
Vini prodotti con il metodo Purovino disponibili in fiera:
·         Orvieto Superiore DOC 2011- Azienda Vinicola Barberani
·         Monteregio di Massa Marittima DOC, vinificato presso la Tenuta Le Mortelle, Marchesi Antinori
·         Cabernet Sauvignon 2011, Vina Haras de Pirque (Cile), Marchesi Antinori.
Purovino è lieto di invitarvi allo stand Centroservizi Castelvecchio, area 8: venite a trovarci per una degustazione indimenticabile!

Quest’anno il Salone si presenta ancora più business-oriented, con attività sempre più mirate per gli operatori professionali, e con una maggiore attenzione rivolta ai prodotti naturali e all’agricoltura biodinamica

Per informazioni:
PC Engineering Srl
Ufficio Stampa Chili PR
02 76281152 - press@purovino.it


mercoledì 7 marzo 2012

IL TREBBIANO: UN ANONIMO ITALIANO

“Da dove potremmo dunque iniziare meglio se non dalla vite, la cui supremazia è tanto incontestata in Italia, che si può avere l’impressione che essa abbia superato, con questa sola risorsa, i beni di tutte le popolazioni, persino di quelle che producono essenze, dal momento che in nessun luogo esiste fragranza maggiore del profumo delle viti in fiore?”

Con queste parole Plinio Il Vecchio introduce, nel libro XIV della Naturalis Historia, il capitolo sulla vite, la pianta che egli considerava “italiana” per eccellenza.
In effetti, la coltivazione della vite era già ampiamente diffusa nella nostra penisola già quando i greci si affacciarono per la prima volta sulle nostre coste e constatarono l’esistenza di questa liana che univa simbolicamente i vari territori, dalla Sicilia fino alle Alpi, e con loro i relativi popoli. Non a caso, sembra che proprio i greci attibuirono il nome di Enotria alla nostra terra, dal vocabolo greco “oinos”, cioè territorio ricco di vigneti. Durante il Cristianesimo, complice la sua diffusione, la vite arrivò dapprima in Francia e poi in tutto il mondo.



Sempre Plinio Il Vecchio, nella Naturalis Historia, parla di “vinum trebulanum” il cui nome, secondo il Prof. Franco Cercone, esperto di storia e antropologia dell'alimentazione, è dato dall'aggettivo trebulanus, derivante dal sostantivo trebula, con il significato di casale o fattoria. Il Prof. Mariano Corino, curatore della traduzione dell'opera De Naturali Vinorum Historia de Vinis Italiae (1595) di Andrea Bacci, fa spesso riferimento al vino Trebulano proveniente da Trebula, oggi Treglia, in Campania presso la città di Capua. Il Prof. Attilio Scienza, invece, ritiene che il termine Trebbiano derivi da “Drijbo”, parola franca, che significa germoglio di grande vigore, che venne attribuita ai giovani rampolli di famiglie nobili a cui era affidato il compito di ridare forza alle campagne dopo le scorribande longobarde. Si ritiene, quindi, a diverso titolo, che la presenza del vitigno Trebbiano nell'Italia centrale risalga già all'epoca romana, anche se non esistono certezze storiche in tal proposito.

Se c’è un vitigno a bacca bianca, infatti, che più di altri può essere rappresentativo della nostra penisola, questo è il Trebbiano nelle sue varie tipologie. Il termine Trebbiano indica la più grande e diversificata famiglia di viti fra quelle conosciute, anche se non vi sono rapporti di parentela da un punto di vista genetico.
Le sue caratteristiche positive di adattamento alle diverse zone climatiche e territoriali gli hanno consentito una forte diffusione su buona parte del nostro territorio. Trattandosi di un vitigno molto plastico, peraltro particolarmente generoso nella produzione e, quindi, di facile commercializzazione, non è così difficile ed impegnativo da coltivare (da qui l’ampia diffusione) e risente molto della mano dell’uomo in cantina. Da qui la possibilità di trovare, anche a pochi chilometri di distanza, espressioni molto diverse nell’impostazione. In effetti, il Trebbiano viene considerato un’uva neutra, cioè priva di aromi varietali o di relativi precursori, e pertanto, all'interno di uno spazio sensoriale, è possibile individuare una posizione che ben ne definisce il carattere, ossia di un vino in cui non è possibile riconoscere peculiarità aromatiche e pertanto, essendo dotato esclusivamente di aromi di fermentazione, può essere collocato nella parte centrale.
 


Fonte: La vite e il vino - Bayer CropScience (2007)

Per quanto riguarda le diverse tipologie troviamo la Turbiana sulle sponde del lago di Garda dove origina il Lugana, e tra le colline di Soave (Trebbiano di Lugana) dove però è stato in parte estirpato per lasciare spazio alla generosa e rustica Garganega. Lungo la pianura emiliana troviamo il Trebbiano Modenese per passare poi a quello Romagnolo, localmente detto “Trebbiano della fiamma”, perché quando l’uva è matura assume, diversamente dalle altre, una particolare coloritura giallo-dorata carica. Più a sud troviamo il Trebbiano d’Abruzzo, risalente al XIV secolo e rivelato più tardi anche nella monografia di Raffaele Sersante del 1856, che ricorda come questa varietà fosse largamente diffusa e nota, non solo nel mondo rurale, con la designazione di uva passa. Abbiamo poi quello Spoletino e quello Toscano, probabilmente il più diffuso in ambito nazionale, mentre in Sicilia abbiamo il Trebbiano Veruzza prodotto a Monreale nei pressi di Palermo.
Le denominazioni di origine che lo vedono protagonista, quindi, attraversano mezza Italia, e quando non ha una DOC dedicata contribuisce comunque a decine di altri disciplinari. Essendo un vitigno neutro e, quindi, una sorta di “prezzemolino” in molti disciplinari, ha fatto propendere qualche guru dell’enologia a considerarlo inutile nel panorama ampelografico italiano e di cui farebbe volentieri a meno. Probabilmente, come già anticipato, tale convinzione nasce dall’incapacità di questo vitigno di avere una propria personalità o la mancanza di un filo conduttore comune anche nello stesso terroir. Tale concetto è avvalorato anche dai disciplinari di produzione che, in generale, riservano una quota di almeno il 15% ad altre varietà a bacca bianca, spesso aromatiche, aggiungo io, che vanno a determinare le peculiarità gusto-olfattive del relativo vino. Se a questo aggiungiamo anche la sua generosità, ecco che ben gli si cuce addosso l’abito di uva da taglio o di maratoneta eno-olimpionico.



Dopo averlo martirizzato, in egual misura mi sento di difendere l’operato di chi ne ha fatto un cavallo di battaglia, sia dal punto di vista squisitamente viticolo, perché chi fa questo mestiere deve pure poter campare del proprio lavoro e dei propri sacrifici che vanno ben oltre un estere, un alcool superiore o un’aldeide, che tanto appassionano e fanno discutere i salotti buoni, che difficilmente si sporcano le mani con la terra, ma anche chi, con ottimo successo di critica, è riuscito a tirarvi fuori un carattere e una longevità, anche grazie a terroir particolari, inimmaginabili per tali vini. Perché non andiamo a dire a questi produttori che hanno sbagliato tutto nella vita?

Sebastiano Di Maria

venerdì 2 marzo 2012

UN POMERIGGIO CON ANGELO D'UVA

Nell’ambito del progetto “Scuola aperta”, organizzato, come già ampiamento anticipato sul blog, dall’Istituto Tecnico “San Pardo” di Larino, con l’obiettivo di avvicinare i cittadini alle realtà produttive del territorio, si è avuto modo di passare un intero pomeriggio presso l’azienda vitivinicola “Angelo D’Uva”, tra filari di vigna e degustazioni guidate con un intermezzo tecnico-pratico sull’analisi sensoriale tenuta dal sottoscritto. Partecipazione attenta e ricca di spunti di discussione quella che gli studenti del corso, un misto di intraprendenti ragazzi dell’Istituto e di cittadini con la “sete” di sapere, hanno intrapreso con Angelo, proprietario e guida a tutto tondo dell’azienda di famiglia, ormai da tre generazioni impegnata nella coltivazione della vite.




Angelo, a partire dal 2001, ha cominciato un’opera di riconversione dei propri vigneti passando dal classico tendone, tipico di quest’areale viticolo, al Guyot, più consono per l’ottenimento di vini di qualità. Contemporaneamente è stata costruita la cantina di trasformazione dalle spoglie di un antico fienile di cui conserva, per alcuni aspetti, tracce della relativa impronta architettonica. Quello che iniziò come una scommessa, ossia la valorizzazione delle peculiarità di un territorio attraverso la cura e le attenzioni verso una cultura che tanto aveva dato alla famiglia nel corso delle generazioni, si è rivelata vincente. Alla cantina di vinificazione esistente se ne aggiunta un’altra, destinata in particolar modo all’affinamento dei vini e alla relativa promozione, con tanto di sala di degustazione. Per quanto riguarda i vitigni, oltre agli internazionali Chardonnay e Cabernet Sauvignon, sono coltivati il Montepulciano, la Malvasia, il Trebbiano, il Moscato Reale e la Tintilia, l’autoctono di cui Angelo è stato un forte sostenitore e artefice della ribalta. Coniugare l’esperienza contadina e le moderne conoscenze e tecnologie enologiche, nel rispetto e nella valorizzazione della territorialità, è il credo di Angelo D’Uva e del suo enologo Donato Di Tommaso, da qualche anno consulente aziendale.

Ma andiamo per gradi. Si è partiti con la tecnica di potatura a Guyot semplice, illustrando i vari tagli che si effettuano per la gestione della pianta (taglio del passato, del presente e del futuro) oltre la relativa gestione della chioma futura, con le varie operazioni effettuate sul verde. La disposizione in filari di tale sistema di allevamento agevola la meccanizzazione di molte operazioni, potendo abbattere di molto i costi di gestione. La tecnica di gestione del suolo, invece, si basa su un inerbimento naturale fino a primavera e la lotta antiparassitaria è di tipo integrato. Si è passati poi alla visita della cantina di vinificazione, individuando le varie tecnologie utilizzate e la relativa importanza nella determinazione della qualità del prodotto finale. L’affinamento dei vini avviene nella parte di cantina attigua, costruita di recente, in fase di ultimazione. Sono utilizzate barrique e tonneaux della Pauscha, mastrobottai austriaci, sia in rovere francese che nell’innovativo legno di acacia, utilizzato, quest’ultimo, per l’affinamento della Malvasia che, con il trebbiano, ritroviamo nell’etichetta Kantharos.


Anche la cantina di Angelo D’Uva, in linea con le attuali esigenze in termini sostenibilità ambientale, si è dotata di un moderno sistema di gestione degli scambi termici da utilizzare nella cantina di affinamento, attraverso il principio della geotermia. Si tratta di un impianto pilota, in partnership con un investitore pubblico, che utilizza il calore del terreno che deriva dall’interno della terra e dall’immagazzinamento del sole, utilizzando l’acqua di falda a 100 metri di profondità. In questo modo si ha un forte abbattimento del consumo energetico potendo sfruttare, difatti, l’energia del sottosuolo. Per tale motivo, la cantina ha in corso di implementazione una certificazione di tipo ambientale, che si va ad aggiungere a quelle di gestione del sistema di qualità e della sicurezza alimentare.

Dopo la visita in cantina si è svolta una lezione tecnico pratica sull’analisi sensoriale e sulla tecnica di degustazione del vino, tenuta dal sottoscritto, vista l’eterogeneità dei partecipanti e l’approccio didattico di tale iniziativa. Dopo una prima parte sulla fisiologia dei sensi e sull’approccio multidisciplinare di tale tecnica, si è passati ad un esercizio di riconoscimento dei gusti base (acido, salato e dolce), con l’ausilio di soluzioni acquose che tanto hanno appassionato e incuriosito, vista la difficoltà, per chi non è allenato, a individuare tali sensazioni che sono fondamentali in analisi sensoriale, ed in particolar modo nel vino.

L’ultima parte è stata dedicata alla degustazione dei vini dell’azienda, a partire dal Kantharos, passando per il Gavio e finendo con il Console Vibio. Le schede di degustazione le ritroverete, appena possibile, nella realtiva sezione del blog. Le immagini, invece, sono pubblicate sul profilo facebook del blog.






Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com



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